Andrea Langhi: il design dei desideri.
Il cambiamento come strumento d’indagine. Le emozioni e le esigenze del pubblico come obiettivo di un lavoro che unisce curiosità, osservazione senza filtri e costume. Andrea Langhi ci ha aperto le porte del suo studio per dialogare sul mondo dell’HoReCa, sul Design e sulla sua idea di Sostenibilità.
Il suo studio d’architettura milanese è particolarmente noto nell’ambito HoReCa e il suo nome è legato ai corsi dei Master “HoReCa Workshop” e agli appuntamenti formativi “Hotel Labos – Architettura & Marketing”, organizzati con la Milano Business School. Sfogliando i suoi lavori si viaggia molto, non solo in Italia: da Terrazza Duomo 21 a Milano ad Autogrill 1958 a Lainate Villoresi Ovest, da La Nazionale a Catania al Carnicero di Milano e Ibiza, Andrea Langhi si esprime da venticinque anni a contatto con il pubblico progettando Ristoranti, Caffè, Lounge Bar e Concept sempre diversi tra loro ma con un elemento in comune: il successo.
Architetto Langhi, ci spiega quali sono le differenze nel progettare uno spazio privato piuttosto che uno spazio pubblico?
Io dico sempre che il locale pubblico deve poter piacere a chi è destinato: sembra scontato ma non lo è. In questo senso, la differenza fondamentale sta nel fatto che quando si lavora per uno spazio privato si ha a che fare con un committente “fisico”, voglio dire con qualcuno che ha esigenze, abitudini, che predilige uno stile piuttosto che un altro: tutti elementi che esprimono la sua personalità e che diventano linee guida anche per l’architetto. Nel caso del locale pubblico questo non avviene, o meglio, avviene in modo diverso, in quanto il destinatario del locale non è il suo titolare, quindi persona fisica, ma il pubblico a cui si rivolge. Uno spazio pubblico deve poter corrispondere a ciò che noi desideriamo nel momento in cui lo scegliamo perché il punto fondamentale è che noi siamo sempre noi, mentre le nostre esigenze, i nostri desideri nel vivere la socialità cambiano a seconda dei contesti e dei momenti. Questo significa che nel locale pubblico, il target non è rappresentato dalle singole persone quanto dai desideri che queste vogliono soddisfare, dall’esigenza che hanno nel momento in cui scelgono quel determinato posto. Quindi, si deve indagare il mercato, capire quali sono le richieste che emergono e conoscere come rispondere anche a livello progettuale. Perché una cosa che ho capito, dopo tanti anni del mio lavoro, è che le persone si sentono a proprio agio in un locale anche e soprattutto per come è stato progettato. E posso garantire che nulla è lasciato al caso: dalle luci agli arredi tutto viene pensato per soddisfare uno specifico desiderio.
Parliamo di custom, un argomento in comune anche con Ciam, che della personalizzazione ha fatto uno dei propri plus.
La customizzazione non è tanto fare qualcosa per qualcuno e basta, ma fare qualcosa che possa essere utilizzato da tutti e reso personale da ciascuno. Faccio un esempio con la moda, che a mio avviso rappresenta lo specchio e il traino di quanto accade nella realtà. Quello che funziona oggi non è tanto l’affermazione di uno stile unico ma la costruzione del proprio brand personale. Le nuove generazioni non vestono più monomarca, ma si caratterizzano per uno stile di profondo mix che attinge a fonti diverse tra loro: non è un caso che i grandi brand guardino sempre più allo street style caratterizzato dalla libertà di esprimere la propria personalità in modo unico e originale e dalla volontà di affermare sé stessi. Ecco, oltre che nel lavoro dell’architetto che progetta uno spazio pubblico come me, credo che anche nelle aziende di fornitura dovrebbe avvenire lo stesso processo, ovvero, non affermare il proprio stile, il proprio modello, ma mettere a disposizione dell’architetto la possibilità di integrare ciò che si produce in contesti sempre diversi tra loro e fare in modo che quell’elemento sia in grado di dialogare con il progetto nel suo complesso. In questo, trovo che CIAM possa soddisfare a pieno la realizzazione di progetti in grado di affermare originalità e personalizzazione, in quanto è stata in grado di creare un processo produttivo che permette di combinare un’infinità di materiali e finiture, rendendo quindi sempre diverso il prodotto che vende, ma mantenendone invariato il processo industriale. Reputo molto intelligente questa forma di customizzazione.
Qual è l’elemento che rende il suo design un design di successo?
Penso che nel design vinca la curiosità. Faccio questo lavoro da venticinque anni e sono convinto che ogni cinque/sei anni avvengano nel mondo dei cambiamenti profondi a livello globale, non solo nelle vite di ognuno. Noi non ce ne rendiamo conto perché siamo nel flusso in cui il cambiamento si determina e tutto è talmente rapido da investirci, ma è fondamentale mantenere accesa la curiosità per capire cosa sta cambiando, cosa accade intorno a noi per individuare e indagare nuove esigenze del pubblico, soprattutto in riferimento alle nuove generazioni. In questo senso, la curiosità coincide con l’analisi della società, con l’osservazione delle abitudini altrui, delle novità che a seconda dei momenti storici investono lo stile di vita delle persone, influenzandone e mutandone esigenze e gusti. Credo che l’osservazione senza filtri pregiudiziali, legati ad esempio a ciò che avveniva in passato, non dovrebbe mai sfuggire a chi come me si occupa di locali pubblici. Perché chi entra in un locale ci va per mangiare, per bere, per divertirsi e stare bene, questa è l’unica cosa che non cambia nel flusso, a prescindere dai momenti storici e dai pubblici diversi, quel che cambia nel tempo è la modalità con cui possiamo fruire e soddisfare tutto ciò.
A proposito di cambiamenti, è appena terminata un’edizione della Milano Design Week e del Fuorisalone che ha puntato i riflettori sul tema “Laboratorio Futuro” e sulla svolta sostenibile. Come vive Andrea Langhi il design in chiave di sostenibilità?
Oggi esiste una parte di comunicazione legata alla sostenibilità che sottintende un concetto di rinuncia. Io andrei piuttosto verso un’altra direzione, avendo l’ambizione di non eliminare ciò che non è sostenibile dal nostro stile di vita, ma di renderlo sostenibile. In questo senso, trovo interessante lavorare a livello tecnologico a nuove formule che permettano di rendere compatibili con il rispetto dell’ambiente alcune delle abitudini legate al nostro stile di vita e alla nostra felicità. Dal mio punto di vista, infatti, il motivo che spinge le persone a frequentare i locali è il desiderio di vivere un’esperienza, per cui penso che quando si parla di sostenibilità, le sfere legate al piacere, alla felicità e alla gratificazione non dovrebbero essere oggetto di rinuncia, piuttosto dovremmo trovare il modo di poterne fruire diversamente. Un esempio su tutti è la carne 3D. Se riusciamo a riprodurre in chiave sostenibile le stesse sensazioni e lo stesso gusto che si hanno nel mangiare la carne animale, allora abbiamo creato un’alternativa che non obbliga a un sacrifico e non nuoce all’ambiente. Credo che solo offrendo strade in cui la rinuncia non è protagonista, le azioni di sensibilizzazione verso la sostenibilità avrebbero un reale risultato su tutti, portandoci a un cambiamento tangibile. Ad esempio, nel mio ambito reputo che la sostenibilità non sia solo scegliere materiali sostenibili o scartare oggetti e arredi a prescindere, se questi possono essere riciclati. Nei miei progetti il riuso è una pratica frequente e spesso utilizzo arredi che di sostenibile non hanno nulla, ma si tratta di oggetti che continuano a vivere in contesti nuovi e con funzioni spesso diverse rispetto a quelle per cui sono nati. Lo stesso avviene per la plastica, oggi demonizzata, io trovo invece che si tratti di un materiale eccezionale, che può essere riciclato mille volte e può subire mille forme. Il problema, quindi, non è il materiale in sé ma l’utilizzo che se ne fa.